In un mondo dominato dall’alta tecnologia, dove la realtà cede il posto al virtuale, il desiderio alla voglia, la parsimonia all’illimitato, cosa ce ne facciamo mai di cartapesta, fili di lana, legno, colla, bottoni, ingranaggi o fischietti? Oggi che ci sentiamo così moderni, tutto questo sembra essere diventato un lusso nostalgico, tanto affascinante quanto obsoleto, accettabile ormai solo dietro la bella etichetta di “vintage”.

Ma, ma, ma: tutto questo è vero se e solamente se continuiamo a piegarci pronamente a una – imperante eppure mai richiesta – legge di mercato (ribattezzata “progresso, sviluppo e crescita” se c’è da abbindolare le masse) secondo cui l’importante non è fare domande ma ingozzarsi di quella continua offerta che ci fa sentire in prima linea nella corsa a un futuro meraviglioso e avveniristico. Futuro che puntualmente poi viene superato da recessione, disoccupazione, povertà. Ma tant’è.  Nell’attesa: comprate e tacete.

Insomma, l’hi-tech trionfa non tanto perché “serva” ma perché mantiene viva un’illusione di possibilità-libertà-felicità che gonfia le tasche di chi vi specula. E nel frattempo il caro vecchio artigianato viene riqualificato a passatempo e faidaté; perché dedicarsi a un’arte o a un mestiere con fatica, lentezza e dedizione pare cosa antiquata, se non inutile, o ancor peggio, ridicola.

Ma è veramente così? Guardare all’artigianato smarcandosi tanto dalla panzana del grazioso hobby vintage quanto da qualunque prurito reazionario-oscurantista è possibile. Come?

Si prenda il fortunato OUT della compagnia UnterWasser. Da un lato abbiamo una storia tipicamente favolistica (o, per dirla in termini contemporanei, “archetipico-esistenziale”): il nostro timido protagonista ha paura dell’esterno (l’outness) e se ne sta al sicuro chiuso dentro casa; sennonché una voce dentro di sé chiede di uscire, è un uccellino, canta dalla pancia tonda dell’omino che sotto la camicia rivela una gabbietta. Aperta la porticina, l’uccello non resiste e vola via. Per rincorrerlo, il piccolo eroe di Out esce finalmente di casa, si espone al mondo, attraversandolo in lungo e largo, tra paura e desiderio, incontri e  piccole avventure, per poi ritrovare quel cuore fuggiasco e capire che i sentimenti più profondi dell’uomo non vanno mai tenuti sotto chiave.
Se questa è la storia, dall’altro lato abbiamo la sua realizzazione scenica ricca appunto di stoffe, carta, cuoio, legno, fildiferro, cinghie, sagome, ombre e pupazzi. Perché dunque affidarsi a una fattura e a un’animazione del passato quando il presente offre mezzi più moderni? (Se la domanda vi sembra capziosa, provate a proporre a un direttore artistico uno spettacolo di teatro di figura – purtroppo nove su dieci quest’arte è relegata agli angoli dell’impero o, quando va bene, a intrattenimento rétro per bambini.)
Perché il punto è che non è questione di alta o non alta tecnologia (anche l’artigianato d’altronde è tékhnēma di che cosa se ne voglia fare. Vivendo però in un tempo affannato di innovazione in cui l’apparenza è tutto, si finisce per credere che le videoproiezioni siano il grande segno di modernità dimenticando probabilmente che la lanterna magica esiste dal 1600, la camera oscura dal 1100, e la scoperta del foro stenopeico risale addirittura a prima di Cristo. E così non si nota ad esempio che la parabola di Out è né più né meno che il quadro della vita contemporanea.

La compagnia UnterWasser infatti non si limita a confezionare una favola, ci restituisce sogni, nevrosi e spaesamenti del nostro tempo. E lo fa immergendo l’artigianalità del teatro di figura in una visione tecnico-artistica squisitamente attuale: si noti ad esempio come si giochi con la prospettiva adottando stilemi del cinema quali le variazioni di inquadratura dal primo piano al campo totale (utilizzando diversi pupazzi in scala dello stesso personaggio). Oppure gli echi pittorici novecenteschi nelle ambientazioni: se la casa dell’omino è uno scacco claustrale di fasce bianche e nere con tanto di quadretti dicromi simil (se non proprio) Rothko; uscendo di casa quel cupo espressionismo astratto si trasforma in un più colorato, seppur ancora squadrato, orizzonte metropolitano à la Mondrian con la vivacità di tratto di Miró; per poi sciogliersi in una grande onda di luce blu o evolvere in tanti cassetti-esperienze di una nonnina dal corpo di armadio (il richiamo non è mai ostentato ma è difficile non scorgere una ascendenza di Dalí Cornell. E chissà che nel loro stesso nome, tedesco a parte, non ci sia un richiamo a Hundertwasser).
Insomma, non si tratta di essere più o meno tecnologici, no, è il bilanciamento di funzionalità e ricerca estetica (quindi consapevolezza del mezzo anziché sfruttamento esibizionistico) a dare vita all’arte: questa attenzione al dettaglio, alla sfumatura, all’invenzione inesausta finisce per catturare lo spettatore e tenere sempre viva la sua partecipazione immaginifica.

Mentre tanto teatro si smarrisce in un goffo tentativo di aggiornamento (verso cosa, verso dove: non è chiaro), con Out  Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio dimostrano che non si tratta né di essere giovani né di essere moderni, si tratta solo di padroneggiare l’arte che si sente vicina alla propria sensibilità e attraverso di essa creare. E non c’è dubbio che quella di UnterWasser sia arte – guai a chiamarla minore – di gran pregio.

 

Nel silenzio generale accadde il viaggio metaforico di una bambino senza nome. Dalla piccola bocca disegnata in carboncino sul legno non esce alcun suono e quindi nessuna informazione. Proprio per questo, forse, ci risulta così facile e immediato appropriarcene subito. Ognuno, tra gli spettatori seduti in platea, lo metabolizza a suo modo e a propria convenienza; lo adatta al suo vissuto, all’infanzia del suo presente o al suo passato di adulto. In ogni caso, sia che si tratti di un ricordo vicino o di una memoria lontana, quel bambino sembra lo conoscano tutti.

Così come sembra che tutti conoscano o abbiano conosciuto l’incontenibile paura del “fuori”, dei rumori che entrano dalla finestra, dell’ignoto oltre la porticina della gabbia. Eppure è solo questione di tempo prima che un’improvvisa tormenta di vento faccia crollare quelle pareti solo apparentemente solide, quelle rigide certezze abitative, spingendo il piccolo protagonista in una ricerca necessaria. Sulle tracce dell’uccellino liberatosi dal petto e che si staglia contro il preminente buio della sena con il suo bel colore rosso pulsante, eccolo, dunque, in cammino, in una viaggio di scoperta e formazione, attraverso pianteti sconosciuti e bizzarri individui, ciascuno dei quali saprà, a suo modo, indirizzarlo verso la meta.
È sorprendente, però, vedere soprattutto come bastino, in realtà, pochi minuti perché la presenza degli attori in scena cessi di infastidire l’attenzione del pubblico. Differentemente da ciò che è consueto e abituale in quel teatro di figura troppo spesso confinato solo nella tradizione puerile e folclorica, questi non si nascondono infatti dietro il grande telo nero, piuttosto si auto-dichiarano deliberatamente puro bios scenico. L’atmosfera onirica e favolosa offre allora un duplice livello di interpretazione, letterale e simbolico: l’estetica e contro tendente presenza dell’attore dietro il pupazzo, oltre che proporre un’inusuale e seducente visione animata, si avvale del merito di aver contribuito a rompere gli argini concettuali che troppo spesso racchiudono gli spettacoli in tipologie vaghe e primitive. Out, che la compagnia Unterwasser firma orgogliosamente come sua prima produzione, rappresenta a pieno titolo un riuscitissimo esempio di vero teatro contemporaneo, di rottura e mescolanza, dove confluiscono sulla scena diverse e molteplici tecniche rappresentative, dalle ombre al teatro d’oggetti, e in cui pupazzi, marionette e burattini si ritrovano finalmente ad abitare un mondo ben più vasto dello spazio, invece chiuso e limitato, della baracca o del teatrino. Il flusso magico che pervade lo spettatore, incantato di fronte ad un oggetto inanimato che prende vita, non si interrompe, ma, al contrario, amplifica la sua potenza, urtando contro un’inconsapevole miriade di fraintendimenti e pregiudizi. Out è un gioiellino che si eleva allo status di rivincita di quello che per oramai troppo tempo è diventato un’immeritata sottocategoria teatrale, ontologicamente meno nobile del teatro d’attore. È un’interazione invisibile quella che gli attori in scena praticano con i protagonisti di Out, quasi una muta conversazione tra oggetti vivi e corpi automatizzati, l’urgente convivenza tra manufatto e animatori, tanto secondari all’azione quanto indispensabili per la sua stessa riuscita. Il muoversi degli attori, infatti, non confonde, ma neanche sparisce; al contrario c’è e vuole esserci, è chiaro e visibile, e collauda un approccio nuovo, rischioso ed ardito ad un tempo, con lo spettatore, che assiste ad un sincero ed espresso sfondamento della finzione e insieme vive una stimolante esperienza, che fa leva su tutti i suoi sensi attraverso un simbiotico impiego delle luci, la plasticità dello spazio e la sua relazione con il movimento, una semplice ma efficace architettura drammaturgica e narrativa e le potenzialità allusive ed evocative degli oggetti.

Pensieri al cospetto di una marionetta

Alessandro Toppi, il Pickwick,

 

I primi cinque minuti di Out raccontano di quando proviamo la paura di vivere davvero; raccontano di quando ci sembra che meglio sarebbe se la realtà che abbiamo d’intorno si limitasse alle quattro pareti di una stanza, di quando non ce la sentiamo di sfidare lo scorrere del tempo o il corso degli eventi e facciamo fatica ad accettare che il fallimento sia possibile; i primi cinque minuti di Out – con questa marionetta manovrata all’interno di una camera da letto più piccola del palco del Nostos, baracchino arredato con uno specchio, due quadri, una sveglia, un letto con la coperta, una finestra con la tenda – raccontano di quando preferiamo non compiere scelte, magari standocene muti, senza dire (né dirci) quello che stiamo pensando; raccontano di quando ci adagiamo – insomma – nella tiepida condizione dell’esclusione, della solitudine, dell’esistenza laterale: che accada pure di dover esistere, se proprio deve accadere, ma che almeno avvenga senza che sia notato dagli altri.

Per suggestione è in questi primi cinque minuti che penso ai personaggi ombratili e fugaci della letteratura (il Cadou di cui scrive Perec in Ritratto dell’autore visto come un mobile, sempre; certi ragazzini conosciuti nei romanzi di Dickens; le creature spaventate da se stesse di Walser; Oblomov, che passa gli anni sul divano; il “preferirei di no” detto e ridetto da Bartleby o Wakefield, che se va a vivere nella casa di fronte per osservare la propria esistenza scorrere senza di lui); è in questi primi cinque minuti che vado agli autori dei capolavori mancati, scrittori ed artisti (Bobi Bazlen o Joseph Joubert, ad esempio) che per decenni hanno lavorato alla composizione di un’opera decidendo, all’improvviso, che quest’opera (del tutto coincidente con la propria vita) non andava né conclusa né conosciuta; è in questi primi cinque minuti, infine, che penso a tutte le volte che avrei voluto e potuto ma non sono stato in grado di.

Allora, prima che lo spettacolo passi dal quinto al sesto minuto, penso che Out non è destinato ai bambini perché i bambini vanno verso il mondo correndo, allungando le braccia, con un senso di fiducia assoluta; i bambini osservano, toccano, mordono, assaggiano, indicano, si avvicinano, si aggrappano, prendono possesso e stringono al petto; i bambini scappano dalla sorveglianza dei padri e delle madri – li avete visti quando corrono con passi indecisi e veloci, chissà verso quale meta? – prima di essere afferrati, sgridati e riportati all’ordine. Out è uno spettacolo invece destinato agli adulti perché siamo noi adulti – alcuni di noi, almeno – che sempre più spesso abbassiamo lo sguardo,smozzichiamo la voce, ci facciamo bastare a noi stessi; siamo noi che ragioniamo per rinunce, che decidiamo le nostre privazioni, che ci imponiamo (sovente facendoci imporre) freni, paure e confini: una soddisfazione in meno, un’emozione mancante, un’avventura o un rischio con cui abbiamo deciso che è meglio non confrontarci.
Cinque minuti, nei quali questa marionetta si sveglia – altrove si sentono i cani abbaiare mentre le auto emettono il loro petulante canto dei clacson – e mi mostra che, al posto della cassa toracica ha una gabbia, lì dove segrega il suo cuore/uccellino. Gli concede libertà mattutina, il volo, ma è un’illusione perché questo volo non è possibile se non all’interno della stanza mentre il cuore – becco giallo, piume rosse – vorrebbe andare più in alto del soffitto, oltre ogni parete e lontano da questa duplice prigione costituita da una gabbia, chiusa, all’interno di uno spazio chiuso.
C’è dunque – in questo frammento iniziale – una creatura che ha paura e che, poiché non sa se sarà in grado d’essere all’altezza del mondo, decide di non fare parte del mondo. Finché…

Il vento arriva da sinistra, abbatte la parete di stoffa laterale determinando il resto dello spettacolo. Previsto accidente,che in qualche modo mi ricorda le pagine del Il fu Mattia Pascal, in cui avviene lo strappo nel cielo di carta che obbliga la marionetta a prendere coscienza dell’esistenza “del cielo, oltre il tetto proporzionato”, il vento rende Out una sorta di romanzo teatrale di formazione, che si coniuga drammaturgicamente come un inseguimento – l’essere che cerca di riafferrare il proprio cuore – e che viene tradotto in scena nella realizzazione di una gincana artigianale e visionaria, di una continua perlustrazione immaginaria e reale, di un percorso estetico che nel suo svolgersi produce e riproduce l’attraversamento di mondi ulteriori, che si formano e sformano a vista.
Diventa così una storia di conquista Out perché quest’essere che si arrampica su scale cubiche, traversa foreste notturne, cavalca pesci d’oceano e vola, tenuto dagli artigli di una rondine, si produce in un itinerario progressivo a cui egli stesso s’era negato, avendo preferito fino a pochi secondi prima lo starsene segregato tra il cuscino e lo specchio, le tende e la sveglia. Favola opposta a quella di Pinocchio, diversa nel suo darsi anche dalla scoperta kafkiana di America (opere i cui personaggi decidono di varcare autonomamente la soglia, di affrontare il viaggio, di darsi alla condizione di viandanti), Out trascina oltre il recinto (fisico e mentale, scenografico e metaforico) e quasi contro il suo stesso volere la marionetta, costringendola a conoscere ciò che altrimenti non avrebbe mai conosciuto: le vetrate colorate dei palazzi, ad esempio, e l’increspatura delle onde, il canto estivo delle cicale, il volo in tondo delle lucciole, le salite delle montagne, le impressionanti distorsioni che la luna produce coi rami degli alberi, il “bla bla bla” di chi pensa di saperla più degli altri e il rombo lontano ma ancora udibile della guerra, il suono di un violino, una ninnananna, serbata come si serba un oggetto in fondo a un cassetto: “Raccontava sempre” – dice Valeria Bianchi parlando di suo nonno Angelo, in un’intervista ad Artintime – e per raccontare “apriva il giusto cassettino dall’archivio dei ricordi, srotolava con cura la pergamena ingiallita del racconto scelto e poi, con la stessa cura, la piegava per metterla in ordine e richiudere il cassetto”. E allora io penso che – quando, nel pieno della trama, la marionetta di Out s’imbatte in un anziano mobiletto di legname, che negli scomparti tiene gli echi del passato – ad apparirmi sia proprio nonno Angelo, così suggerendomi anche un processo identificativo, una personalizzazione momentanea, una labile traccia biografica, che qui accenno per iscritto ma che  poi smetto subito: per riservatezza, per incertezza critica, per timore di uscire fuori traccia.

Luigi Allegri, in un saggio contenuto nel terzo volume della Storia del teatro moderno e contemporaneo, dice che le tradizioni con cui occorre fare i conti sono due: quella alta, che imparenta la marionetta al divino (come Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, così l’uomo produce una similitudine tra sé e Dio attraverso l’oggetto); quella bassa, che degrada ogni forma di pupazzo (marionetta, burattino, pupo, automi) a un giocattolo, a uno sfizio. Di volta in volta, nel corso dei secoli – dal Medioevo alle avanguardie di metà Novecento – la marionetta rappresenta quindi qualcosa che è di più o di meno dell’essere umano: nell’esercizio dei giullari di corte, che “esibiscono marionette cui non è dato comportarsi in modo esemplare” (leggo dalla Supplica di Riquier); nella pratica dello “scherzo sciocco, girovago e popolare” messo in atto dal marionettista che gira per bettole (basta ricordare l’episodio narrato nel ventiseiesimo capitolo del Don Chisciotte) fino a, via via, diventare strumento d’iniziazione teatrale, mezzo attraverso cui ci si avvicina al mistero dell’arte: penso alle memorie autobiografiche di Stanislavskij o al Wilhelm Meister di Goethe, nel quale la vocazione del protagonista passa per il prodigio delle marionette inanimate che gli sembrano quasi prendere vita. Si arriva in questo modo a usare la marionetta prima come premessa al teatro e poi come arma scenica contro il teatro stesso e – in particolare – contro gli attori: “Non capiscono mai niente delle opere che devono recitare” afferma Artaud, meglio sarebbe sostituirle con “le marionette, di cui si è maestri, sovrani e creatori” per dirla con le parole di Jarry e – con Jarry e Artaud – sarebbe facile citare Maeterlink e Schnitzler, Kleist, De Ghelderode e Gordon Craig, Pirandello, De Filippo, Depero o il Trattato dei manichini di Bruno Schulz, che è alla base de La classe morta di Kantor: “Della marionetta ci possiamo fidare” – scrive d’altronde Arthur Symons – “Essa risponderà alle intenzioni dell’autore senza riserve né contestazioni”.
Di volta in volta utilizzata per rappresentare, identificare o far apparire un qualcuno/qualcosa che sta soprasotto o che è altro dall’essere umano, la marionetta riteatralizza le possibilità del teatro e tuttavia lo spettacolo di cui fa parte non è mai considerato del tutto degno di essere definito teatro ma solo qualcosa che è soprasotto o altro dal teatro: è un rito o uno scherzo, è un intrattenimento da piazza, è una bagattella per fanciulli o un’azione dinamica, sovversiva e antiteatrale.
Il panorama, a vederlo bene, non mi sembra del tutto mutato perché, nella scena contemporanea, burattini e marionette appartengono a quella forma (considerata da molti subalterna) chiamata adesso “teatro di figura” e che viene associato al teatro per bambini, da fare possibilmente nelle aule e negli orari scolastici o nelle matinée(buone per accrescere i dati da dare al Ministero), e che troppo spesso è considerata una pratica folklorica o minore o infantilmente iniziatica al “teatro degli adulti”. Ma io guardo Out, al Nostos, e guardo questi tre artisti – Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Stefan Andrei Balan (ma ricorderei anche Giulia De Canio, assente a questa replica) – che sono ad un tempo registi, interpreti e tecnici dell’intero spettacolo e penso ciò che ha già scritto Allegri: “Solo uno sguardo superficiale può intendere” questa forma di rappresentazione “entro limiti e indici di subalternità”.
Solo uno sguardo superficiale non può rendersi conto che Out – e gli spettacoli come Out – non possono far parte della presunta subalternità indotta da un sistema di codici e di etichette fasulle e che più sarebbe appropriato, finalmente, considerare il teatro di figura in termini di parità o, se preferiamo, di alternatività al teatro degli attori. “È teatro tout court,” − scrive ancora Allegri – “che basa la propria specificità non sulla popolarità, dunque sulla presunta ingenuità e purezza della propria cultura, ma sulla rivendicazione di articolate, e colte, modalità di strutturazione”. Basti soltanto considerare – per tornare ad Out – a cosa significa assistere alla continua trasformazione a vista dell’ambiente scenico (che avviene, ad esempio, attraverso l’uso di luci e controluci, rispetto continuo e variabile delle proporzioni, riutilizzo significativo di un oggetto e geometrismo pittorico, isolamento del personaggio, costruzione per montaggio) e cosa significa confrontarsi con la compresenza, nello stesso spazio, della marionetta e di chi la manovra: è un’induzione alla fantasia, è un tentativo per costringere ancora o di nuovo lo sguardo del pubblico ad abbandonarsi alla visione ed a cedere parti di consapevolezza per ottenere, in cambio, momenti di stupore.
Immersi come siamo in mondi digitali creati apposta per noi, dei quali siamo fruitori ingabbiati (la saturazione preordinata dello spazio virtuale e dei suoi percorsi possibili) anche quando pensiamo di esserne protagonisti liberi e indipendenti, mentre il teatro diventa – almeno nelle sue manifestazioni più ricche e sfarzose − una sorta di cinematografia che avviene dal vivo, al punto da indurre lo spettatore alla passività della ricezione (tutto mi è dato dalla scenografia, non ho nulla quindi da immaginare), spettacoli come Out ridanno vigore a quel tacito accordo pattuito tra gli interpreti e il pubblico in base al quale – per questo tempo in comune, in questo spazio in cui siamo – facciamo finta di credere credendoci veramente.
Fino a che, com’è avvenuto in questo caso, gli applausi cominciano sancendo la fine dell’incantesimo.

Le meraviglie del teatro di figura

di Andrea Porcheddu- Gli stati generali,

5 dicembre 2015.

 

Non so come sia andata a voi, ma mio figlio è rimasto molto colpito, impressionato e spaventato dai fatti di Parigi. Ha otto anni. E per lui elaborare una tale quantità di notizie non è facile. Da quel giorno, avverte una certa, insondabile, “paura”: un sentimento ovviamente comprensibile, ma da non sottovalutare.

Perché poi ci sono davvero troppe “istigazioni alla paura”. Ovunque. Cresce innegabilmente una apologia della paura, un senso diffuso di insicurezza che viene sistematicamente coltivato, complici – come ben sappiamo – media sicuramente energici nel cavalcare l’ondata di terrore e la fibrillazione collettiva, e dei politici che sciacalleggiano sulla confusione altrui pur di stare tre minuti in più in tv.

Roma, inoltre, registra un sensibile aumento di aggressività, di rabbia malcelata, di tensione contagiosa – cui dà buoni argomenti anche il disservizio diffusissimo, a tutti i livelli: ce ne accorgiamo in metropolitana, in strada, alla posta. Tutti pronti a urlare o a menar le mani per prevaricare l’altro.

Allora, contro la fantomatica minaccia, con i vecchi e nuovi “invasori”, contro l’eterno “uomo nero”, la prima reazione è tapparsi in casa, chiudere porte e finestre e star là, serrati, e sperare che il nemico passi oltre. I bambini tutto questo lo avvertono, eccome.

Ecco perché ho visto con molto entusiasmo uno “spettacolino” di egregissima fattura, firmato da tre attrici-perfomer-manipolatrici che con grande garbo e sapienza affrontano proprio il tema della paura. Il gruppo si chiamaUnterwasser, lo spettacolo Out e loro sono Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio e già si sono fatte notare in vari premi nazionali. Nella vivace stagione del Teatro Brancaccino, il lavoro è stato accolto da sinceri applausi.

La storia ha come protagonista un bambino dal corpicino fatto a forma di gabbia: dentro cela un uccellino, e vive chiuso – anche lui – nella gabbia della propria stanzetta. Il mondo fuori è rumoroso e pericoloso: meglio, appunto, starsene chiusi dentro.

Poi, però, accade che quell’uccellino-cuore scappi, prenda il volo, fuggendo dalla finestra inopinatamente aperta. E il piccolo eroe di legno deve, per forza, affrontare il mondo. Deve uscire fuori.

Inizia così il più classico dei viaggi-avventura, alla scoperta del sé e dell’Altro, passando dal timore-tremore iniziale a una consapevole coscienza della libertà. Le avventure si susseguono, gli incontri straordinari si moltiplicano, le magie incantano, come nella migliore tradizione della “morfologia della fiaba”.

Il percorso iniziatico è dunque un viaggio dentro se stessi, ma che attraversa il mare e la natura, con lucciole e gabbiani a far da interlocutori. Un viaggio in cui capita di imbattersi in un adulto che parla a vanvera e non ascolta, o in una vecchietta che è un pupazzo il cui corpo è fatto di cassetti: ad aprirli vengono fuori ricordi, musichette d’antan, memorie di un passato anche doloroso in cui riecheggia una guerra lontana.

Non mancano, ovviamente, momenti di spavento: ma è proprio sul superamento della “paura” che insiste lo spettacolo, e lo fa in modo equilibratissimo.

Non sono un esperto di teatro di figura, ma mi piace come – con sapienti trasformazioni della materia, sappia essere letteralmente meraviglioso: oggetti quotidiani assumono valenze semantiche altre, materiali spesso semplici e primari sprigionano capacità evocativa e onirica. In simili soluzioni, Out dà il meglio di sé. Bianchi, Buzzetti, De Canio gestiscono bene, con partecipe serietà, anche i cambi scena che scandiscono la narrazione in quadri o stazioni. E questa semplice e mirabolante avventura svela il chiaro messaggio: apriamo la gabbia del nostro cuore, inutile chiudere, erigere barriere, inutile serrarsi in casa. Meglio esplorare, volare, nuotare, giocare. O no?

E il pubblico di bambini, di prima e seconda elementare, che assisteva allo spettacolo, con grande attenzione e partecipazione emotiva, forse ne farà tesoro.

Out –Sinais de Cena

di Rui Pina Coelho, Portuguese Association for Theatre Critics, 30 ottobre 2015

 

This puppetry performance echoes Maeterlinck’s Blue Bird main dramaturgical axes. In effect, it is also a story about the search for happiness. A boy has lost his singing bird, a bird that he kept inside his chest. He goes through a series of obstacles until he reaches, at the end, his beautiful bird. The story, however, doesn’t teach him much. He never gives up the idea of having his bird kept in a birdcage. But, at the end, the bird teaches him a lesson: he (and his new female bird friend) will join the boy – but they will not be kept in the cage. Blatantly simple, it’s powerfully efficient: happiness must be compatible with freedom otherwise it is not possible. Simple, poetical, emotive, it is a magnetic and magnificent puppetry performance, combining several manipulation techniques. This kaleidoscopic and inventive combination of manipulated objects, puppets, shadows – where lights and music are used with cheerful intelligence and emphatic function – creates an impressive performance, sometimes almost like an animated film. Pure theatrical joy.

Out – Segni d’Infanzia

di Maddalena Giovannelli, Stratagemmi.it, 30 Ottobre 2015

 

Amare non è possedere l’altro. È quello che imparerà il bambino protagonista di Out– lo spettacolo presentato al festival Segni d’Infanzia della compagnia UnterWasser – al termine della sua faticosa ricerca. Out è una deliziosa favola di formazione raccontata attraverso il linguaggio immaginifico del teatro di figura, che non ha bisogno della parola per arrivare dritto al cuore degli spettatori: a comunicare bastano le musiche, i gesti, e i pupazzi magistralmente condotti dalle tre performer visibili in scena.
L’oggetto del desiderio è un uccellino, che il bambino custodisce gelosamente dentro di sé, in un petto-gabbia: forse rappresentazione dell’interiorità, forse primo embrionale rapporto con l’altro da sé. Ma l’animaletto dispiega le ali e, come da copione, vola via. Ci vorrà molto coraggio e molta strada, per terra e per mare, per ritrovarlo. Ma alla fine – proprio come ci aspetteremmo da una sceneggiatura Disney – gli sforzi e le peripezie porteranno all’acquisizione di un prezioso nucleo di verità. Il bambino comprenderà che quel viaggio, e quella perdita di controllo, fanno parte della vita. E che bisogna avere il coraggio di portare fuori ciò che si custodisce all’interno: una lezione che la compagnia UnterWasser, dopo aver ricevuto importanti riconoscimenti di settore, propone al pubblico mantovano proprio mentre il filmInside Out spopola nelle sale. Un insegnamento da non smarrire, per gli spettatori di tutte le età.

LE CŒUR ET L’ART DES 3 ROMAINES

di Albert Bagno, Charleville 2015

 

Elles ont un nom de compagnie qui est une énigme : Unterwasser (est-ce pour le bizarre architecte ? ou pour le marionnettiste de la zone allemande de l’Italie, ou pour… ?).
Elles sont trois Valeria Bianchi, Giulia De Canio, Aurora Buzzetti et elles sont arrivées en voiture de Rome.
Elles sont jeunes, elles ont la joie d’apprendre et de communiquer et elles sont simplement géniale !
Elles ont présenté dans le festival Off de Charleville « Out » sans parole mais où elles disent beaucoup, en commençant par les thèmes affrontés (trop pour être ici racontés), par l’élégance du jeu et par l’émotion qu’elles suscitent.
Elles ont séduit le public des rues par leur gentillesse et leur professionnalité. Malgré la pluie, elles ont fait un tabac dans la cour du festival. Morale : elle vont droit au cœur !
C’est rare et c’est pas peu dire ça !”

 

In occasione del premio scenario infanzia avevamo già espresso il nostro apprezzamento per il venti minuti di “Out” della compagnia Unterwasser, creazione interamente progettata e costruita dalle capaci mani delle giovani Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio. Al Festival abbiamo assistito al suo completamento che ci è parso assolutamente in sintonia con le intenzioni e la buona riuscita del frammento già da noi visto alla finale del Premio Scenario.

“Out” racconta la storia di un bambino che tiene il suo cuore-uccellino chiuso nella gabbia del suo petto, per paura che possa smarrirsi o farsi male. Un giorno però l’uccellino, curioso di conoscere il mondo, scappa dalla finestra, costringendo il bambino a uscire di casa per la prima volta e a intraprendere un viaggio per inseguirlo. Il bambino attraverserà il mondo in tutti i suoi aspetti in un percorso di crescita e di conoscenza di se stesso. “Out” sperimenta a tutto tondo le potenzialità poetiche, evocative e comunicative del teatro di figura inserendole in uno spettacolo muto, dove la musica e i suoni vengono utilizzati come amplificatori del sentimento e del significato. Le tre giovani animatrici giocano con ombre, oggetti e forme di varie dimensioni e natura, costruendo ambienti e personaggi, assai diversi tra loro, tra cui, ci piace ricordare, una antica vecchia saggia dai cui cassetti della memoria il protagonista può attingere per diventare finalmente libero e autonomo. Uno spettacolo dunque bello e poetico, dove l’arte del teatro di figura può agevolmente uscire dalla tradizione per incamminarsi anche lui, come il bimbo protagonista della storia, verso nuovi orizzonti guidato come è stato da tre giovani animatrici.”

 

[…] Il delicato, tenero Out, di Untervasser, anch’esso segnalato nell’ambito del premio Scenario Infanzia 2014, dimostra ancora una volta come il teatro di figura possa spingersi ad esplorare strade diverse rispetto alle pur sempre affascinanti forme classiche del teatro delle marionette o dei burattini. Qui la parola è bandita, e il messaggio è affidato unicamente all’immagine non realistica, all’aerea poesia che scaturisce da oggetti vagamente antropici, animati a vista. La favola può leggersi come il percorso iniziatico di un bambino, ma il suo sguardo sul mondo adulto ha qualcosa dell’ingenua saggezza di Charlie Brown (cui lo apparenta anche il testone tondo del pupazzo). Si pensa al segno di Peynet, ma è evidente anche la citazione di Mondrian. Il fascino principale dello spettacolo sta nella fattura minimalista, artigianale degli oggetti, ricavati da materiali poveri; l’attenzione affettuosa al pupazzo che, proprio nella rinuncia a qualsiasi realismo, assume anima e vita. Il gruppo, costituito solo da un anno da tre giovani donne (Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio) ha già acquisito una sorprendente maturità artistica e inventiva, che induce ad attendere con curiosità alle prossime prove. […]

 

A ricevere la nostra menzione d’onore è stato Out delle Unterwasser di Roma. Frutto di un’evidente e quasi scientifica raffinatezza artistica, lo spettacolo si traduce nel viaggio di iniziazione e formazione di un bambino che viene e-ducato, cioè condotto fuori dalla sua casa, metafora delle sue certezze, e messo in relazione fin da subito col mondo e con i suoi inevitabili contrasti, resi magistralmente da un sapiente e minuziosissimo gioco di luci e ombre.

Colpisce l’artigianalità, la plasticità e stilizzazione dello spazio, l’uso certosino della materia povera e per questo sfruttata in tutte le sue potenzialità: il metallo e il vetro delle piccole strutture scenografiche; il legno delle marionette, che sono un bimbo con il torace a forma di gabbia (da cui esce un uccellino, metafora del cuore aperto al cambiamento) e Bla Bla, tipologia dell’uomo adulto e vuoto.

L’energia delle immagini e la dimensione onirica – che tanto mi ricorda i viaggi immaginari di Jean-Michel Folon – non possono non soddisfare l’occhio dello spettatore, a cui sono proposti mirabolanti percorsi di vita fra città e natura, sebbene il tutto sia sommerso dal buio. Se ne apprezza, in particolare, l’intento di trasmettere un messaggio universale attraverso l’uso di archetipi.

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